Sostanzialmente dovrei solo invertire il processo.
I miei piccoli passi si sono fusi con le scale che scricchiolano, il mio orecchio si tende di fronte allo specchio, perché intuisco un movimento familiare, felpato, ignaro. Anzi, più qualcuno a cui non importa, perché effettivamente non importa. E le conversazioni piccole, superficiali, parole che non trapassano più i muri, i sussurri che muoiono sulla punta della lingua. Cosa me ne faccio? Veramente ho avuto bisogno di questo per un periodo? Mi devo delle scuse.
E così corro. Ho per lo più abbandonato le mie sessioni di yoga, ho perso la mia elasticità, in tutti i sensi. Adesso seguo il vento e corro, sempre più veloce, sempre più veloce, proprio come mia madre quando scappava dal futuro che ha comunque abbracciato. Sento l'impatto dei miei piedi con l'asfalto, l'eco che si perpetua attraverso infinite invisibili particelle che arrivano al centro della terra e poi tornano in me e si ripercuotono nell'intero sistema. Sono così viva. Non corro per scappare, non corro verso niente in particolare, sono talmente nel momento con le gambe leggermente indolenzite e le mani che si intorpidiscono col freddo, che il resto diventa solo un periodo nella mia storia, da punto a punto, e da lì un passato può anche diventare un presente.
Com'è possibile che io sia tornata a circondarmi di persone che sentono ma non ascoltano? Che parlano ma non dicono niente di interessante, niente di abbastanza. Nulla è abbastanza qui. E come tocchi un argomento diverso, come cominci a scavare, la sala si svuota, la musica si ferma invece di intensificarsi, gli occhi volgono altrove invece che incontrare i miei e un poco alla volta io muoio, o meglio, scompaio. Non voglio questo.
Mi trovo nuovamente a leggere tra le righe, sperando di non esagerare, di non inciampare nella sequenza sbagliata, di non aggiungere quello che non c'è e di non tralasciare niente. Piccoli, piccoli dettagli, un contatto velato e un volto un po' troppo vicino, l'aria che si fa densa, la circolazione che si congela in un respiro, tutto diventa fluido e incredibilmente lento, talmente lento da invertire il corso, risucchiare l'ossigeno fino quasi a implodere. Tutto si ferma. Eccolo lì, per una frazione di secondo che nella mia testa si amplifica fino a diventare un secolo, e poi riparte tutto più in fretta, un vortice interminabile e inarrestabile, io nel mezzo, persa.
Sembra una di quelle notti in cui nulla succede, ma le mani prudono, i piedi non stanno fermi, il cuore palpita, e anche se parte dal punto sbagliato della mia coscienza, è pur sempre ispirazione. Qui, adesso, silenziosa, e sola. Cosa devo fare con te? Nei gesti fermati a metà, nelle futilità quotidiane, qualsiasi cosa a cui aggrapparsi per fermare il tempo, per condividere qualcosa di futile travestito da necessità.
Eppure... va bene così. È la mia casa, è il mio posto sicuro in cui tornare, sono io che non me la prendo, sono io che sorrido e faccio finta che non mi importi, che ce la posso fare, che sto bene, perché io sto bene. Sono le poche parole e ancora tanti piccoli, piccoli dettagli, che forse gli altri non notano, ma le persone come me sì, fino a farsi del male, ma mai tirarsi indietro.
Perché mi scomodo fin dall'inizio? Perché mi importa? Perché con tutto ciò che posso provare non agisco di conseguenza? E perché fanno tutti finta che l'elefante non sia in questa fottuta stanza? Ed eccomi qui, ed eccoci qui, e come quell'incredibile musicista una volta disse "parli come se io non ci fossi più". E l'elefante nella stanza sono io.